Eccoci giunti al canto XXIV; Dante e Virgilio hanno appena lasciato la sesta bolgia ed entrano nella settima; prendono per un ponte che sovrasta una zona oscura da dove salgono lamenti e parole incomprensibili.
Parlando andava per non parer fievole;
onde una voce uscì de l’altro fosso,
a parole formar disconvenevole.
Non so che disse, ancor che sovra ’l dosso
fossi de l’arco già che varca quivi;
ma chi parlava ad ire parea mosso.
I due percorrono tutto il ponte sino all’argine tra la VII e l’VIII Bolgia e da qui Dante può vedere che la fossa è piena di orribili serpenti, tutti diversi tra loro, e lo spettacolo è così spaventoso da fargli ancora paura al ricordarlo. corrono dannati nudi e terrorizzati, con le mani legate dietro la schiena da serpi che insinuano il capo e la coda attorno ai loro fianchi, annodandosi davanti al ventre.
con serpi le man dietro avean legate;
quelle ficcavan per le ren la coda
e ’l capo, ed eran dinanzi aggroppate.
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Un dannato è assalito da un serpente, che lo morde sulla nuca: lo sventurato arde e in un batter d’occhio si trasforma in cenere, per poi cadere a terra, raccogliersi e tramutarsi di nuovo nella stessa figura di prima. Dante approfitta della situazione e mette fra questi dannati un pistoiese di sua conoscenza, tal Vanni Fucci.
Io non posso negar quel che tu chiedi;
in giù son messo tanto perch’io fui
ladro a la sagrestia d’i belli arredi,
Insomma questo Vanni si era rubati gli arredi sacri del duomo di Pistoia.
e falsamente già fu apposto altrui.
e la colpa del furto era stato attribuito ad altri.